Eugenio Montale e la poesia del Novecento

Ossi di seppia, il primo libro di Eugenio Montale, esce nel 1925, nell’epoca del “ritorno all’ordine” promosso dalla rivista «La ronda» in letteratura e imposto dal partito Fascista in politica, dopo i fermenti rivoluzionari che avevano condotto fino al biennio rosso. 

Dai Poeti maledetti in poi si impose nella letteratura tardo-romantica europea la poetica simbolista, accompagnata da una rivoluzione formale che dal Coup des dès di Mallarmé era giunta ai versicoli di Ungaretti. In Montale questa stessa poetica, mentre si apre al plurilinguismo lessicale di stampo espressionista post-vociano, si chiude nelle forme metriche dei versi tradizionali (settenari, novenari, endecasillabi) e della rima (anche baciata), a cui corrisponde, sul piano psicologico, la dialettica tra dissipazione della coscienza, nello «scialo dei triti fatti», e stoica autosufficienza morale del soggetto (Pier Vincenzo Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, 1990, p. 523). In accordo con la poetica delle piccole cose di stampo pascoliano, il simbolismo di Montale si àncora a oggetti umili (muri d’orto e muraglie con in cima cocci aguzzi di bottiglia, limoni, ossi di seppia e altri detriti marini, ecc.), perdendo tuttavia la carnalità, anche morbosa, del Gelsomino notturno di Pascoli, finendo anzi per scarnificarsi e acuminarsi nel pruno e nello sterpo di Meriggiare pallido e assorto. La strada è aperta per l’affermazione della poetica dell’oggetto, che rappresenta l’alternativa di Montale alla poetica dell’assoluto, della parola scavata nell’abisso di Ungaretti.

La poetica dell’oggetto, che in contemporanea è sviluppata da T.S. Eliot in area anglosassone, trova la sua massima espressione nel 1939, quando Montale pubblica il libro Le occasioni, contenente le poesie del decennio precedente, risalenti fino al 1928. In queste poesie il male di vivere, ancora enunciato nella celebre poesia degli Ossi di seppia, così come qualsiasi occasione di ispirazione è omessa per lasciare spazio soltanto all’oggetto che la incarna. Ciò rende i testi di ancor più difficile interpretazione, rispetto a quelli del primo libro, e ha indotto ad associare Le occasioni alla poetica dell’Ermetismo, sviluppatasi a Firenze negli anni Trenta. Tuttavia, Montale, al contrario degli ermetici, non intende ritirarsi nella turris eburnea, nella torre d’avorio, come reazione all’imbarbarimento della società negli anni del Nazi-Fascismo. Montale non opta per una oscurità deliberata. Mantiene aperta la sua ricerca di senso e alla verticalità lirica (Ti libero la fronte dai ghiaccioli) associa una poesia che adotta il passo della narrativa, mantenendosi sempre distinta dalla prosa, per la tessitura fonica e la struttura poematica (Dora Markus).

Il terzo libro, La bufera e altro, giunge nel 1956. È un’opera di passaggio, che ha diviso gli studiosi, spingendo alcuni a considerarla una stanca ripetizione o, peggio ancora, un’involuzione rispetto alle precedenti. Giorgio Zampa, l’esegeta ufficiale di Montale, che ha curato la sua opera poetica omnia, ricorda, in effetti, che «nella raccolta si vollero scorgere segni di stanchezza e persino d’involuzione, sensibili nel lessico, nella metrica, nelle immagini», tuttavia «in un contesto generale la critica lo considera un’ardua prova superata con fermezza, unita saldamente alle precedenti. La bufera rappresenta un’evoluzione rispetto a Le occasioni, è la loro prosecuzione con l’annessione di zone prima non toccate, la maturazione di elementi in quelle accennati o solo potenzialmente contenuti; mentre anticipa la svolta di Satura, la prova di maggiore vitalità fornita da Montale» (Giorgio Zampa, Introduzione in Eugenio Montale, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1990, p. XLI). Valga L’anguilla a conferma di quanto sostenuto da Zampa.

Siamo negli anni Cinquanta. Il momento è critico non solo per la poesia di Montale ma per tutta la poesia italiana. L’anguilla non usciva da quel post-simbolismo in cui si era dibattuta gran parte della poesia italiana per tutta la prima metà del Novecento, non riuscendo a trovare strade convincenti, a parte quelle battute, alla ricerca della calda vita e di una musicalità ottocentesca, da Umberto Saba con il suo Canzoniere (1900-1947), nella direzione del romanzo in versi su cui influì anche la psicoanalisi, e da Sandro Penna con le sue cantabili Poesie (1939). Nel secondo dopoguerra riescono per primi a proporre nuove direzioni, tra i tanti, Vittorio Sereni con Diario d’Algeria (1947), nel segno della prosaicità che, fattasi più insistita ne La bufera, sarà sviluppata anche da Montale in Satura, e, soprattutto, Edoardo Sanguineti con Laborintus (1956), nel segno di un nuovo sperimentalismo, sostenuto da Luciano Anceschi e la rivista «Il Verri» da lui fondata nel 1956, di stampo avanguardistico, che da lì a qualche anno si sarebbe imposta, in seguito alla pubblicazione dell’antologia I novissimi. Poesie per gli anni ’60, a cura di Alfredo Giuliani (Rusconi e Paolazzi, coll. Biblioteca del Verri, 1961) e alla nascita della Neoavanguardia o Gruppo 63, che avrebbe aperto la strada a una poesia ostile alla comunicazione e favorevole all’influenza delle nuove scienze (sociali, linguistiche, ecc.), nel segno della rottura con la tradizione. Negli anni Cinquanta, un altro genere di sperimentalismo, che non rinunciava né alla comunicazione né a un rapporto dialettico con la tradizione, fu promosso dalla rivista «Officina», fondata nel 1955 da Francesco Leonetti, Pier Paolo Pasolini e Roberto Roversi, che entrarono in contrasto con la rivista «Il Verri», dando vita a uno scontro tra riviste di grande importanza per la storia della letteratura e della lingua italiana.

Gli effetti della diatriba tra i due tipi di sperimentalismo, promossi dalle riviste «Officina» e «Il Verri», mettendo in primo piano la necessità di un rinnovamento delle forme e del linguaggio in poesia, si fecero sentire in molte delle opere più importanti degli anni Sessanta. Mario Luzi, che aveva esordito in seno all’Ermetismo con La barca (1935), all’inizio degli anni Sessanta pubblicò il fondamentale Nel magma (1963). Anche la poesia di Giorgio Caproni, che aveva esordito negli anni Trenta con la plaquette Come un’allegoria (1936) poi raccolta, insieme ad altre pubblicate nel frattempo, nel primo libro organico, Il passaggio di Enea (1956), una sorta di controcanto in minore dei primi tre libri montaliani, procede negli anni Cinquanta subendo assestamenti sperimentali, che si traducono in un doppio sguardo puntato, da una parte, verso il recupero critico della tradizione cantabile (Il seme del piangere, 1959), dall’altra, verso una sliricizzazione poematica che si dispiega nelle prime prosopopee (i personaggi iconici e immaginari che prendono la parola nel Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee, 1963), fino all’allegorismo dantesco de Il muro della terra (1975), in cui il poeta assume la figura del cacciatore di verità e di Dio, immobile perché atterrito dalla sua inesistenza. Amelia Rosselli, dopo avere frequentato negli anni Quaranta-Cinquanta Rocco Scotellaro e gli intellettuali del Gruppo 63, nel 1963 esordì con il libro Variazioni belliche, di cui 22 componimenti erano stati anticipati, con entusiasmo, da Pier Paolo Pasolini nel numero 6 della rivista «Il Menabò», in quello stesso anno.

Infine, Eugenio Montale, dopo quindici anni da La bufera e altro, nel 1971 pubblicò il suo quarto libro, Satura, opera che ben rappresenta la svolta subita dalla cultura e dalla società italiana, quindi anche dalla poesia, negli anni Sessanta. In Satura, dopo le due serie di Xenia, che contengono le poesie pubblicate nel 1966, in tiratura limitata, per la moglie morta e che mantengono in gran parte la cifra stilistica delle prime raccolte, con l’aggiunta di una tagliente ironia (per esempio, Xenia II, 8 e 9) e autoironia (Xenia II, 14), Montale rilegge la propria esperienza abbandonando il linguaggio sostenuto dei primi libri e approdando a un tono colloquiale, in cui ad essere triti non sono solo i fatti, come in Ossi di seppia, ma anche i vocaboli, come i «sottopassaggi» de La storia, paragonata a una «rete a strascico» (il primo titolo pensato per Satura). Sulla stessa linea si colloca Diario del ’71 e del ’72 (1973), prosecuzione di Satura. In Quaderno di quattro anni (1977) non c’è più la disposizione del Diario, ma si mantiene l’attenzione sull’equivocità del linguaggio, sulla sua usura, sulla necessità di impiegarlo con tutta la diffidenza di cui si è capaci: dalla «divina indifferenza» degli Ossi di seppia Montale è approdato alla diffidenza, tutta terrena.


Ringrazio Salvatore Ritrovato per la sua attenta lettura e i consigli preziosi.

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