Nelle settimane scorse alcune allieve e allievi del Liceo classico “Rinaldini” di Ancona mi hanno chiesto di tenere un laboratorio su Realtà e Finzione nella vita quotidiana durante la loro assemblea d’Istituto. Mi auguro che il laboratorio abbia soddisfatto le loro aspettative e che la sintesi che propongo di seguito possa stimolare altre persone a sviluppare una coscienza critica, autonoma e indipendente, unico scopo del formatore.
Demolire il carcere della finzione
Dall’imposizione del teatro nelle corti rinascimentali, dei giornali negli Stati moderni, quindi dell’industria culturale nella società moderna, infine del cinema, della televisione e di internet, nei paesi ricchi si vive in una Realtà virtuale sovrapposta alla Realtà materiale, perché prima solo i palcoscenici, poi anche le pagine dei giornali, quindi i proiettori, i tubi catodici infine i computer, cioè i computatori, ovvero i calcolatori trasformano in scene, quadri, immagini le informazioni immesse attraverso meccanismi prima analogici, quindi elettrici, infine digitali, elettronici, meccatronici, ologrammatici, che a loro volta vengono decodificati dal nostro cervello attraverso una serie di impulsi elettrici. Se dal Rinascimento all’Ottocento si è vissuti in un immenso teatro, fra Ottocento e Novecento ci siamo rinchiusi in una gabbia elettrificata, prima soltanto elettrica, poi elettronica e infine meccatronica, sempre connessi a macchine che interpretano e diffondono i nostri pensieri e le nostre azioni per il profitto.
A causa della connessione permanente con la Realtà virtuale, frammentata e schizofrenica, i disturbi del sistema nervoso sono ormai all’ordine del giorno, fra le vecchie e le nuove generazioni. Chi non regge, soccombe e viene spazzato via dalla corrente. Che strumenti ha la popolazione, quindi, per orientarsi in questo incessante flusso? Molti materiali, ma pochi concettuali, perché tutta la società si è adeguata all’ordine meccatronico, imponendo anche alla scuola di adeguare il suo ambiente, finora in qualche modo protetto, a quello meccatronico. Siamo finiti tutte e tutti, quindi, anche noi docenti, in una gabbia che deve essere capita nella sua struttura per imparare ad aprirla e insegnarlo ai nostri allievi e alle nostre allieve.
I. Come uscire dalla gabbia: studiarne la struttura
Chi studia le strutture profonde del nostro linguaggio, nota che qualsiasi gabbia informativa, anche quella informatica, che trasforma le informazioni in numeri che accendono i pixel, è un codice e ogni codice risponde allo stesso principio del codice per eccellenza, il codice dei codici, il linguaggio verbale, l’unico capace di parlare di se stesso e di tutti gli altri codici. Cerchiamo allora di scoprire qual è il segreto del codice dei codici, così potremo forse formulare un nuovo sistema socio-economico, fondato su un nuovo codice etico.
II. Il segreto del codice dei codici
Nel fantasticare il mondo, cioè nel dirlo, nel rappresentarlo con le parole, bisogna fare altrettanta attenzione ai trucchi della mente, quanto ai segreti del linguaggio, perché nel nome si nasconde la traccia, il fantasma, lo spettro della cosa. Fantasticare non significa, per esempio, solo creare con la fantasia esseri immaginari, o, meglio, creare con la fantastia esseri immaginari non significa ciò che crediamo, ovvero creare un mondo alternativo alla Realtà: fantasticare, derivando dal verbo deponente latino for, faris, fatus sum, fari significa divinare, indovinare, predire la Realtà. Stando ai significati del verbo fari, le azioni che designamo con i verbi parlare, dire, narrare, manifestare, palesare, celebrare, cantare in versi, predicare, vaticinare, profetare sono tutte la stessa azione, che consiste non solo nel rendere il mondo dicibile, manifesto, palese, ma anche nel predirlo, cioè dirlo prima che si manifesti. Se si esclude la possibilità di creare dal nulla, significa che dire una cosa equivale a rendere possibile che la cosa sia.
III. Non Realtà ma Cosalità
La Realtà dunque è prodotta dalle parole? Parlando di Realtà non si sa più bene a cosa riferirsi: la Realtà dei fatti o la Realtà dei media? La Realtà naturale o la Realtà virtuale? Esiste davvero una differenza fra le due Realtà? Oppure «i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni», come sosteneva Nietzsche (Frammenti postumi 1887-89)? Secoli di discussioni sull’argomento potrebbero portarci fuori strada, per cui seguiamo il consiglio di un antico popolo, i Latini, i quali, per strutturare un discorso, raccomandavano la seguente strategia: res tene verba sequentur, cioè attieniti alle cose, le parole seguiranno. Diamo retta ai Latini, quindi, partiamo dalle cose: guarda caso, la parola realtà viene proprio dal latino res, che significava cosa, per cui potremmo anche ribattezzare la realtà con il nome di cosalità.
IV. Il linguaggio schizoide e la mente schizofrenica
Della Cosalità, cioè dell’insieme delle cose che circonda noi cose umane, noi possiamo avere esperienza, cioè guardarle, toccarle, annusarle, ascoltarle, gustarle, ma possiamo anche averne memoria, perché le cose, attraverso i sensi che le percepiscono e il cervello che le elabora, si sdoppiano nella mente: il riflesso delle cose nella mente sdoppia il mondo. La parola cosa è il doppio sonoro della cosa, il segno della cosa è il suo doppio iconografico, quindi il linguaggio verbo-icono-grafico scinde la natura naturale nella natura umana, la natura nella natura, la cosa nella cosa. Il linguaggio è la faglia in cui l’Essere si scinde, perciò la mente, in quanto motore del linguaggio, è per sua natura schizofrenica. Il linguaggio, infatti, è la schisi per eccellenza (schisi: dal gr. σχίσις «separazione, fenditura», der. di σχίζω «separare, scindere».), un difetto morfogenetico di saldatura che tiene separate, in uno stesso corpo, in uno stesso spazio, in uno stesso tempo, la natura-natura (natura naturans) e la natura-pensante (natura cogitans), pur essendo la stessa natura indivisa, secondo Spinoza (cfr. Ethica, 1677). Tuttavia, il linguaggio è una cosa tra le cose, è parte della natura, quindi, se la mente è schizofrenica, lo è perché il linguaggio è il doppio delle cose, non ricongiunbile a esse, sebbene siano parte della stessa sostanza, essendo entrambe, parole e cose, parte integrante della natura: significa che il linguaggio è natura scissa, spaccata, sdoppiata.
V. Illuminazione
In altre parole, quando l’occhio della creatura animale guarda le cose e ne ascolta il suono, il suo cervello le sdoppia, quindi la mente crea un doppio delle cose, percependole: i doppi cerebrali delle cose forniscono le informazioni necessarie a interagire con loro. Il cervello della creatura animale parlante, però, sdoppia le cose anche quando gli assegna nomi, numeri, icone: i doppi linguistici delle cose non forniscono solo informazioni necessarie a interagire con loro, ma le sostituiscono, le rimpiazzano. Fin qui non c’è nulla di nuovo, né di strano: siamo «nate a vaneggiar menti mortali», diceva Ugo Foscolo nell’Ode all’amica risanata. Ciò che strabilia, però, è pensarsi come cosa che pensa se stessa, come caos parlante: il linguaggio è il modo in cui la natura comunica con se stessa, si media, si traduce, risorge: il linguaggio è un’invenzione della natura per sdoppiarsi, per sopravvivere alla propria morte: in effetti, sdoppiata nel segno linguistico (nome, numero, icona) la cosa diventa fantasma.
II segno è una traccia lasciata dalla luce: è l’ombra della cosa.
Conclusione
Se la mente – da mens, mentis, affine a meminisse e al gr. μιμνήσκω «ricordare» – proietta sulle cose una griglia di segni, allora res tene verba sequentur significa che per afferrare le cose con la mente bisogna usare le parole-cose, che sono i concetti, le idee, le proposizioni scientifiche, cioè parole nude, chiare, originarie, approssimativa sintesi della materia come le forme geometriche.
Per confrontarsi con il flusso, la fluida cosalità, bisogna diventare fluidi, formali, formarsi, formare e trasformare il mondo padroneggiando tutti i codici possibili, specie quello grammaticale, giuridico e matematico, perché «La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto», come sosteneva Galilei ne Il Saggiatore.
Il linguaggio formalizzato della matematica dovrebbe ibridarsi con il linguaggio comune in un nuovo linguaggio, fondato su leggi tanto grammaticali quanto matematiche, un linguaggio regolato da una possibile mategrammatica. Per fare ciò occorrerebbe una linguistica capace di usare la matrice R4 di Minkowski. Qui mi fermo, tuttavia, rinviando la questione ad altra occasione e sede.
Chiudo con un canto di Franco Scataglini al Carcere demolito, scritto dopo la demolizione della buiosa, la prigione di Santa Palazia, in seguito al terremoto che colpì Ancona nel 1972 e che danneggiò in modo talmente grave la struttura da imporne l’abbattimento. Dalle sue macerie sorsero altre rovine: sotto il carcere si nascondevano i resti di uno dei più antichi e grandi anfiteatri romani a picco sul mare che vi siano al mondo. Anfiteatro e carcere: altrettante allegorie di un mondo dominato dalla finzione e dalla violenza, dalle cui macerie però una struttura nuova, vera e pacifica potrebbe sorgere.
Franco Scataglini
Carcere demolito
I
Come colpi d’aceta
sprofondane tre mure
framezo ortighe scure
de sopra la breceta;
‘na fascia de cemento
d’indove el filspinato
se driza intorcinato
ie fa da sbaramento
e ‘n cancelo de legno
con lucheto e catena
(el verdeto e la pena
che se delma a congegno).
Co’ la demolizio’
esta chioga quadrata
sorti’ come schiodata
da ‘na maledizio’
de sbare e schiavarda’,
d’aria fissa e de ronde,
de ore fate imonde
da la cativita’.
O raza de Cai’,
fadigatora al chiuso,
vedevi alzando el muso
le sole ai segondi’.
II.
In piedi su lo stero
solo Santa Palaia
che sona come strazia
la lima sopra ‘l fero.
Sibene la faciata
sia tuta ‘n’armatura
resiste a la ventura
‘sta chiesa disgraziata
indove per mestiere
la gerarchia dei bagni
portava a puli’ i pagni
de le pegore nere.
Sbatute sopra el scoio
del Guasco, pore vite,
mai non sorti’ pulite
pero’ dal lavatoio,
ce rinforzo’ la ghigna,
anzi, se perse al be’
c’a sopravive c’e’
solo ‘n mezo, la tigna.
Su ‘l spazio in abandono
c’e’ ‘l fiore de la malva.
Se ‘l vive non se salva
muri’ basta al perdono.
III.
Io so che ‘na buiosa
e’ tuto ‘l vive d’omo
pero’ guardo sul domo
vola’ i cucali rosa.
Arisali’ la rupe
tremenda del cago’
‘ndove ingozo’ un papo’
de pesci e d’acque cupe.
Zompati oltre le merde
de la necesita’
va de soavita’
incontro al mare verde
e grida de sarcasmo
contro chi ‘rmane avinto
drento ‘l suo labirinto
de paura e d’orgasmo.
Pudessimo anda’ sciolti
(no solo in sepoltura)
da colpe e da catura
‘ndo’ ce semo rinvolti.
Sopra el nuvolo erto
sempre ‘l spazio e’ infinito.
Carcere demolito,
al principio e’ ‘l deserto.
*
Qui si può trovare un glossario dei termini più difficili da decifrare.
Valerio Cuccaroni