Trascrivo una lettura fondamentale, la dodicesima epistola tratta da Giulia o la nuova Eloisa di Jean-Jacques Rousseau.
LETTERA XII A GIULIA

Mia Giulia, quant’è commovente la semplicità della vostra lettera! Come ci si rispecchia bene la serenità d’un’anima innocente, e la tenera sollecitudine dell’amore! I vostri pensieri s’esprimono senz’artificio e senza fatica; comunicano al cuore una deliziosa impressione che uno stile ricercato non produce. Voi affermate invincibili ragioni con un tono così semplice che bisogna farci riflessione per sentirne la forza, e i sentimenti elevati vi costano così poco che si è indotti a scambiarli per pensieri comuni. Ah sì, senza dubbio, tocca a voi regolare i nostri destini; non è un diritto che vi concedo, è una giustizia che vi domando; la vostra ragione deve risarcirmi del male che avete fatto alla mia. Da questo momento vi affido per sempre il dominio della mia volontà: disponete di me come di un uomo che non è più niente per sé, e la cui esistenza non dipende che da voi. Siate certa che manterrò l’impegno che assumo, qualsiasi cosa mi prescriviate. O diventerò migliore, o voi sarete più felice: dappertutto vedo la ricompensa della mia ubbidienza. Vi affido dunque senza riserve la cura della nostra comune felicità; fate la vostra, e avrete fatto tutto. Quanto a me, che non sono capace di dimenticarvi un solo istante, né pensare a voi senza slanci che pur bisogna vincere, attenderò unicamente a quelle cure che m’avrete imposte.

Dopo un anno che studiamo insieme, non abbiamo fatto che letture disordinate e quasi a caso, più per provare il vostro gusto che per istruirlo. Per altro il turbamento della nostra anima non ci concedeva alcuna libertà di spirito. Gli occhi mal si applicavano al libro, la bocca ne pronunciava le parole ma l’attenzione era assente. La vostra cuginetta, non così preoccupata, ci rinfacciava la nostra disattenzione, e si concedeva il facile onore di precederci. Insensibilmente è diventata il maestro del maestro, e anche se talvolta abbiamo riso delle sue pretese, in fondo è la sola dei tre che sappia qualche cosa di quanto abbiamo imparato.

Per riacquistare il tempo perduto (ah, Giulia, mai ce ne fu di meglio impiegato?) ho steso una specie di piano che dovrebbe riparare col metodo il danno che le distrazioni hanno fatto al sapere. Ve lo mando; fra poco lo leggeremo insieme, qui mi limito a qualche leggera osservazione.

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Codex è una parola che in latino significava tronco d’albero, poi, siccome con il tronco d’albero si producevano le tavolette per scrivere, la parola codex è passata a indicare anche il dispositivo privilegiato per la trasmissione della conoscenza umana: il codice, dal manoscritto al programma informatico.

Questo semplice mezzo, questo inerte strumento, questo dispositivo inanimato, ha assunto oggi, in seguito a un processo di antropomorfizzazione, ingannevoli fattezze umane, grazie alla propaganda dell’industria tecnologica che spaccia, attraverso i media che controlla e finanzia, per intelligenza (artificiale) un banale meccanismo per accumulare, processare e diffondere dati.

L’intelligenza umana è un fenomeno del vivente associato per millenni al divino, al Logos cosmico. Effetto della tendenza (altrettanto umana) alla reductio ad unum, di quel processo interpretativo che riconduce fenomeni diversi a un unico principio esplicativo, abbiamo ridotto questo fenomeno complesso al codice con cui si esprime, a un suo prodotto.

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Elsa Morante è una delle più importanti narratrici italiane del secondo Novecento, tradotta negli Stati Uniti e in altri paesi del mondo, vincitrice del Premio Viareggio con il suo primo romanzo, Menzogna e sortilegio (1948), a parimerito con Aldo Palazzeschi, prima donna a vincere il Premio Strega con il romanzo L’isola di Arturo (1957), autrice del grande romanzo La Storia (1974) e di Aracoeli (1982), che chiude la quadrilogia dedicata ai rapporti familiari, in particolare madre-figlio (L’isola di Arturo, La Storia, Aracoeli) o madre-figlia (Menzogna e sortilegio). A dimostrazione dell’ampiezza e dell’ecletticità delle sue ricerche, nonché del suo legame con una tradizione tardo-romantica che rimonta a Baudelaire e ai poètes maudits, nel 1968 Morante pubblicò Il mondo salvato dai ragazzini, un’opera polimorfa, contenente poesie, canzoni, favolette morali e un testo teatrale, La commedia chimica, ispirata alle sue sperimentazioni con l’LSD e altre sostanze psichedeliche. Cesare Garboli scrisse di lei: «la verità, la concretezza, il mistero della realtà avevano bisogno, per parlarle, per farsi ascoltare da lei, di raccogliersi intorno a un fuoco e di farsi trascinare dall’immaginazione come da una grande forza mistica, simile a un’allucinazione e a una droga» (Elsa Morante, Opere, 2 voll., a cura di Cesare Garboli, Mondadori, Milano 1988-1991).

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Il Romanticismo è un movimento letterario nato alla fine del XVIII secolo, in Germania, ma alcuni dei suoi principi cardine (recupero del Medioevo, esaltazione del sentimento, in particolare della malinconia, e della natura selvaggia, ecc.) sono rintracciabili in opere e artisti inglesi e tedeschi della metà del Settecento, che, pertanto, alcuni studiosi hanno chiamato, con un termine discutibile, preromantici. Al Preromanticismo apparterrebbero, in Inghilterra, i Canti di Ossian di Macpherson, tradotti in italiano da Melchiorre Cesarotti, la poesia ciminteriale di Edward Young e Thomas Gray; in Germania, i drammi, i romanzi e le poesie scritte, fra gli altri, dai giovani Johann Wolfgang Goethe e Friedrich Schiller, membri del movimento tedesco dello Sturm und Drang.

Il termine romantico, però, ha una storia più remota. Deriva da “roman”, che nel 1100, in Francia, assumeva il significato di “romanzo cavalleresco”. Questo tipo di opera trattava temi come l’amore tra cavalieri e principesse o imprese cavalleresche per la ricerca del sacro Graal.

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Ho trovato in rete una pagina dell’Università di Roma su Sulpicia, poet(ess)a del circolo di Messalla Corvino a cui appartenevano anche Tibullo e Ovidio. La pagina rischia di non essere più visualizzabile, perciò la trascrivo di seguito. L’indirizzo internet originario, per chi riuscisse a consultarlo, è il seguente: https://didattica-2000.archived.uniroma2.it/lett_lat_B/deposito/Sulpicia

Una donna che scrive poesia: Sulpicia

Premessa

In questa Unità esamineremo l’opera dell’unica poetessa romana di cui ci sia rimasta l’opera, o almeno una parte di essa: Sulpicia, aristocratica romana di età augustea, le cui sei brevi elegie (per un totale di quaranta versi) ci sono state conservate tra i componimenti della cosiddetta Appendix Tibulliana (il libro 3 del Corpus Tibullianum). Il caso di Sulpicia è interessante sia per l’opera in sé, che per la storia della sua ricezione: il modo in cui vengono lette, interpretate, e studiate le poesie dell’unica donna scrittrice di Roma antica ci dice molte cose sui pregiudizi ideologici dei classicisti di ogni epoca.

• come è costituito il Corpus Tibullianum;

• cosa ha scritto Sulpicia, e quali sono i principali problemi esegetici che pongono le sue non facili elegie;

• cosa possiamo dire sulle figure storiche di Sulpicia e del suo amato Cerinthus;

• come è stata recepita la figura di Sulpicia nei commenti filologici alla sua opera dal Rinascimento a oggi;

• come si configura il risveglio di interesse per Sulpicia nella critica recente.

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