Furore: il realismo dionisiaco
«“Sta capitando qualcosa. Sono andato a guardare, e le case sono tutte vuote, e la terra è vuota, e tutto quanto il paese è vuoto. Io qui non ci posso più stare. Devo andare dove va la gente. Lavorerò nei campi, e forse sarò felice.”
“Senza predicare?” chiese Tom.
“Senza predicare.”
“Senza battezzare?” chiese Ma’.
“Senza battezzare. Lavorerò nei campi, nei campi verdi, e starò vicino alla gente. Non cercherò di insegnargli niente. Cercherò di imparare. Imparerò perché la gente cammina nell’erba, li sentirò parlare, li sentirò cantare. Ascolterò i bambini mentre mangiano la polenta. Sentirò marito e moglie mentre di notte cavalcano il materasso. Mangerò con loro e imparerò.” I suoi occhi erano umidi e lucidi. “E nei boschi ci andrò schietto e onesto, con tutte quelle che ci vogliono venire. Imprecherò e bestemmierò e ascolterò la poesia della gente che parla. Tutto quello ch’è santo, tutto quello che non capivo. Sono queste le cose buone.”
Ma’ disse: “Amen.”»
Il romanzo di John Steimbeck, intitolato The grape of wrath, letteralmente “L’uva dell’ira”, pubblicato nel 1939 a New York, fu tradotto in italiano nel 1940 da Carlo Coardi per Bompiani, ma dovette subire i tagli e i rimaneggiamenti della censura fascista. Per giudicare, basti confrontare la traduzione appena letta, condotta sulla versione integrale da Sergio Claudio Perroni e pubblicata da Bompiani soltanto nel 2013, con quella tagliata di Coardi, risalente al ventennio fascista.
«“La situazione è grave. Sono andato in giro a vedere, e ho visto le case abbandonate, i poderi abbandonati, tutto il paese è un deserto. Non posso restare. Sento il dovere il bisogno di andare dove va il popolo PoohLavorerò la terra, e forse troverò pace.”
“E predicare, più niente?” domandò Tom.
“Predicare no.”
“E battezzare?” domandò la mamma.
“Nemmeno. Vado a lavorare la terra, ho bisogno di sentirmi prossimo ai miei simili. Non voglio insegnare niente, voglio imparare da loro; ascoltare cosa dicono, ascoltarli quando cantano e quando imprecano e quando fanno all’amore, e sentire la poesia di quello che fanno, di far come loro. Perché tutto quello che fanno, e che prima non capivo, tutto quel che fanno è santo.”
“Amen,” disse la mamma.»
Sono saltati i riferimenti all’amore coniugale sul materasso e all’amore libero nei boschi, a imprecazioni e bestemmie. Eppure, la cifra dionisiaca del capolavoro di Steinbeck si può cogliere in entrambe le versioni: è presente nei capitoli dedicati alla marcia della tartaruga (terzo), alle case abbandonate e al cavallo sostituito dal trattore (undicesimo), al corteo dionisiaco con cui la famiglia Joad si sposta dall’Oklaoma alla California, lungo la Route 66, sfuggendo alla carestia e celebrando la vita, ma non soltanto la vita umana, bensì tutta la vita, intesa come bios.
Già Edmund Wilson, nel saggio I californiani (in Saggi letterari 1920-1950, Garzanti, Milano 1967), notava che «c’è nell’opera narrativa di questo scrittore Sostrato che rimane costante e che le conferisce un certo peso: in Steinbeck c’è una costante prova preoccupazione per l’aspetto biologico delle cose. Egli è un biologo nel senso letterale di uno che si interessa di ricerche biologiche…»
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