Poeta vate tra decadenza e propaganda. Parte 1 di 2

In Italia, durante il periodo del Decadentismo, che va dal 1880 al 1900, nell’accezione ristretta, o dal 1880 al 1945, nell’accezione estesa, si affermò la figura del poeta “vate”, in particolare con Gabriele D’Annunzio, il Vate per eccellenza. Anche se non fu il primo né l’unico. Analizzeremo questa figura letteraria così come si configura in Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli, Gabriele D’Annunzio e Annie Vivanti, iniziando dai primi due. Prima però facciamo un passo indietro.

Chi è il poeta vate? Breve excursus dall’antichità alla modernità

Il termine vate deriva dal latino vates, che ha la stessa radice di vaticinio, profezia. Il vate, quindi, è il profeta. Che c’entrano le profezie con la poesia? Innanzitutto, in origine poesia e religione non erano distinte, le profezie erano pronunciate e trascritte in versi. In particolare, il poeta è un vate perché è un tramite fra la divinità e l’umanità, è un sacerdote in grado di ingraziarsi gli dèi per condizionare il destino, il fato del suo popolo.

Questo potere del poeta è testimoniato dal verbo arcaico, scomparso nel latino classico, for, fatus sum, fari, in cui erano condensate tutte le azioni che possono essere compiute con la parola: dal semplice dire, parlare, al più complesso manifestare, palesare, fino all’epico cantare, celebrare in versi e al divino profetare, divinare, predire, vaticinare appunto. Il rapporto tra poesia e religione, dunque, è molto antico. In età storica il fondatore della letteratura latina, Livio Andronico, uno schiavo liberato originario della greca Taranto che nel 240 a.C. rappesentò per la prima volta dei drammi greci tradotti in latino, nel 207 a.C. fu incaricato dal Senato di scrivere un inno, cantato da 27 vergini, per propiziarsi gli dèi. In cambio, dato che l’inno propiziatorio ebbe risultati positivi, gli fu donato il tempio di Minerva sull’Aventino per creare il Collegium Scribarum Histrionumque. Duecento anni dopo, anche Orazio, poeta augusteo del I secolo a.C., che nelle sue Odi si definiva Musarum sacerdos, “sarcerdote delle Muse” (Odi, III, 1), fu incaricato nel 17 a.C. di scrivere un inno agli dèi, cantato da 27 fanciulle e 27 fanciulli, il Carmen saeculare, ordinato da Augusto per i giochi sacri.

Nella letteratura italiana, il più importante poeta vate delle origini fu Dante Alighieri, che scrisse il poema sacro conosciuto come Divina Commedia per indicare all’umanità la via della salvezza eterna, raccontando un viaggio ultraterreno che prima di lui fu compiuto da Enea e San Paolo. In quanto guida del popolo Parini si definiva un vate, Alfieri lo era per Foscolo, mentre i poeti tedeschi come Novalis e inglesi come Blake recuperarono il concetto di sacralità del poeta, che giunse fino al francese Baudelaire, conscio che il poeta moderno ha perso definitivamente l’aura sacra, come ironizzò nel piccolo poema in prosa Perdita d’aureola nello Spleen di Parigi (1869). Verlaine farà di questa perdita un fattore distintivo, rendendo Baudelaire il padre dei Poeti maledetti, titolo che Verlaine diede all’antologia da lui pubblicata nel 1884 in cui inserì quei poeti che sono condannati, come lui stesso, Rimbaud e Mallarmé, fra gli altri, ad aspirare invano all’Assoluto, pur essendo capaci di percepire le baudelaireane corrispondenze tra suoni, colori, odori che si rispondono tra loro in quella foresta di simboli che è la Natura.

Carducci: da satanista democratico a vate decadente

D’Annunzio non fu solo un poeta vate, fu anche un simbolista, che seppe interpretare a modo suo la lezione di Baudelaire e dei poeti maledetti, ma non fu il primo. Fu preceduto da Giosuè Carducci (1835-1907), che, a partire dall’ode Alla regina d’Italia del 1878 e sempre più dal 1880 fino al 1904 (quando fu costretto a lasciare l’insegnamento universitario per la sua malattia), divenne il primo poeta vate dell’Italia umbertina, abbandonando le posizioni democratiche della giovinezza ed elogiando la monarchia come garanzia di unità e argine al pericolo socialista. E anche Carducci intepretò a modo suo il simbolismo decadente, in particolare nei fantasmi, dolori, tormenti, ebbrezza e tedio infinito della poesia Alla stazione in una mattina d’autunno, scritta nel 1875 e contenuta nelle Odi barbare (1877).

Pascoli: da anarcosocialista a vate colonialista

Quando Carducci lasciò l’insegnamento, la cattedra di letteratura italiana all’università di Bologna fu affidata, nel 1905, a Giovanni Pascoli (1855-1912), che di Carducci fu allievo. Nel corso degli anni, come il maestro, anche l’allievo cambiò la sua posizione politica, diventando un vate dell’Italia monarchica dopo essere stato un rivoluzionario. Pascoli poté iscriversi all’università grazie a una borsa di studio di 600 lire che gli fu assegnata nel 1873. A Bologna Pascoli conobbe l’anarchico Andrea Costa e militò nelle fila degli anarco-insurrezionalisti, tenendo comizi nel 1877 a Forlì e Cesenza. Nel 1878 fu arrestato per avere partecipato a una manifestazione a sostegno degli anarchici. L’esperienza del carcere lo depresse a tal punto da fargli meditare la morte, come testimoniato dalla poesia La voce, contenuta nei Canti di Castelvecchio (1907), nella quale il decadentismo risuona nel soffio della voce spettrale, negli echi dei sì sì che rimano con Zvanî e si rovesciano nei no no che invitano alla preghiera (le devozioni!).

Pascoli uscì di galera anche grazie al sostegno del suo maestro Carducci, che garantì per lui su richiesta della Questura. Si riprese e smise la militanza politica, dissociandosi dal regicidio dell’anarchico Gaetano Bresci con l’inno Al re Umberto del 1900 e trasformando il suo socialismo in nazionalismo colonialista, a partire dal 1906, con la pubblicazione di Odi e inni, contenente la poesia al Sire caduto, fino al discorso La grande Proletaria si è mossa del 1911.

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