La letteratura moderna nasce dall’ignobile. Il sublime d’en bas

«L’ignoble me plaît. C’est le sublime d’en bas. Quand il est vrai, il est aussi rare à trouver que celui d’en haut.» (trad. it. «L’ignobile mi piace. È il sublime dal basso. Quando è vero, è raro da trovare come quello dall’alto.»)

Gustave Flaubert, Lettera a Louise Colet, 4 settembre 1846

C’è chi ritiene che il primo romanziere moderno sia Gustave Flaubert perché, per primo, ha saputo creare in prosa uno stile nuovo, in cui si mescolano basso e alto, l’autore si eclissa dietro la sua opera ed emerge un nuovo tipo di sublime, il sublime d’en bas, il sublime dal basso. 

È nel romanzo Madame Bovary (1856) che Flaubert elabora la tecnica dell’impersonalità, grazie alla quale lo scrittore riesce a nascondere la propria presenza, secondo il principio per cui «l’artiste doit être dans son œuvre comme Dieu dans la création, présent partout et visible nulle-part» (trad. it. «l’artista deve essere nella sua opera come Dio nella creazione, presente ovunque e visibile in nessun luogo», Gustave Flaubert, Tentation de saint Antoine, 1874). Il narratore, dunque, lascia che a parlare siano i fatti narrati, la storia, i suoi personaggi, a partire dalla protagonista del romanzo.

Ecco perché, non appena Madame Bovary fu pubblicato nel giornale «La Revue de Paris», Flaubert fu processato per immoralità e oscenità: aveva raccontato la storia di una donna adultera (Emma Rouault, signora Bovary), che tradiva il marito (il medico di campagna Charles Bovary), ma l’aveva raccontata senza intervenire esplicitamente per condannare il comportamento della donna, come invece avevano fatto fino ad allora i precedenti scrittori realisti, da Fielding a Manzoni fino a Balzac.

Il personaggio di Madame Bovary è ignobile, per estrazione sociale e per atteggiamento morale: Emma è una ragazza di campagna, quindi non aristocratica (ignobile significa letteralmente non nobile) e la sua follia amorosa non solo la porta all’adulterio ma non è neanche autentica. L’idea di amore come passione travolgente, a cui bisogna necessariamente abbandonarsi per vivere una vita degna di essere vissuta, non le deriva da una propria, originale elaborazione spirituale e intellettuale, come succedeva al giovane Werther nel noto romanzo di Goethe, ma era alimentata dalla lettura di romanzi amorosi, come l’idea di cavalleria derivava a Don Chisciotte dalla lettura di romanzi cavallereschi. Soltanto che Don Chisciotte era il protagonista di un poema eroicomico, mentre Madame Bovary è la protagonista di un romanzo realista. 

La passione di Emma Bovary, in altre parole, è travolgente e tragica, come quella di Werther, ma è frutto dell’illusione di una persona che si crede di essere chi non è, come Don Chisciotte. A differenza di Cervantes, che si prende gioco del suo protagonista con uno stile comico, Flaubert, tuttavia, segue le vicende della sua eroina, fino al fatale epilogo, con estremo realismo, senza giudicarla. La fine è quella di un’eroina tragica ma una vera eroina non da tragedia, quanto piuttosto una mitomane, un fenomeno da cronaca nera.

Per capire la differenza, prendiamo Antigone, una delle grandi eroine della tragedia greca. Antigone, a differenza di Emma Bovary, è un’aristocratica, figlia del re di Tebe; al contrario, Emma ha origini popolari e si trova a vivere una vita borghese, con un medico di campagna. Quando entra in contatto con l’ambiente nobile, dopo essere stata invitata a un ballo dal marchese di Andervilliers, Emma smania per ritornarvi: conta sulla punta delle dita le settimane che mancano al nuovo possibile ballo, ma resta delusa e «dopo quella delusione, il suo cuore rimase vuoto ancora una volta, e la serie delle giornate tutte uguali ricominciò.» (Madame Bovary, p. 109). Disillusa, è presa dal tedio, dunque, Emma Bovary, come Leopardi nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, e come il contemporaneo Charles Baudelaire, ritenuto il primo poeta moderno, è presa dallo spleen. Anche la passione amorosa di Madame Bovary, quella che si accende al ballo nelle braccia del Visconte, è travolgente, come una tempesta, spaventosa, sublime. Quindi, in quanto sublime risponde all’ideale estetico che durante il Romanticismo aveva affiancato il bello classico, grazie a Burke e Kant. Eppure, quella di Emma non è la passione di Werther, non è la passione romantica originaria, è una passione romantica di secondo grado, romanticheggiante, una copia di quel modello di passione romantica diffusasi in Europa a partire da I dolori del giovane Werther fino alle interpretazioni popolari dei melodrammi, come Lucia di Lammermoor (1835) di Gaetano Doninzetti, opera ispirata al romanzo di Scott The Bride of Lammermoor e citata da Flaubert nel suo romanzo («Sul marciapiedi passò gente che usciva da teatro, canticchiando o sbraitando a squarciagola: O bell’alma innamorata!», Madame Bovary, p. 380). Così, accade che «Il ricordo del Visconte veniva rinnovato di continuo dalle letture. Emma scopriva somiglianze tra lui e i personaggi inventati.» (Madame Bovary, p. 101).

Quindi, Emma si illude di vivere in un romanzo, perciò, quando si lascerà corteggiare dallo studente Léon Dupuis, quando tradirà il marito con il proprietario terriero Rodolphe Boulanger, Emma li assocerà al ricordo del Visconte: «Si sentì presa dal languore, ricordò il Visconte che le aveva fatto ballare il valzer alla Vaubyessard, la barba di lui, che emanava lo stesso profumo di vaniglia e di limone dei capelli di Rodolphe, e, senza volerlo, socchiuse le palpebre per aspirarlo meglio. […] Le sembrò di volteggiare ancora nel valzer, sotto le luci dei lampadari, fra le braccia del Visconte, le sembrò che Léon non fosse lontano, che stesse per arrivare, e, nello stesso momento, fu conscia della testa di Rodolphe accanto a lei.» (Madame Bovary, pp. 246-247)

Questa copia dell’amore letterario, dell’«amor, ch’al cor gentile ratto s’apprende» di dantesca memoria, degradata, non è solo un’illusione libresca, ma è anche e soprattutto il motore di una degradazione morale che porta Emma a indebitarsi e a umiliarsi, «senza rendersi conto neppure lontanamente di questa prostituzione.» (Madame Bovary, p. 508).  È il sublime dell’ignobile, descritto con impersonale realismo.

Un analogo sublime d’en bas è ricreato da Charles Baudelaire nei suoi Fleurs du mal (1857) in cui non solo trasforma in soggetti poetici i vizi e i viziosi (prostitute, ubriaconi, ecc.) ma lo fa con uno stile perfetto ed elevato, sublime appunto. E il risultato è lo stesso di Madame Bovary: le poesie di Baudelaire furono sequestrate per oltraggio alla morale pubblica e offesa alla morale religiosa. Il sublime d’en bas torna nei Petits poèmes en prose, scritti fra il 1855 e il 1864. Nel quattordicesimo, Il vecchio saltimbanco, per esempio, Baudelaire racconta la storia di «un povero-saltimbanco curvo, decrepito, una vera ruina d’uomo, appoggiato a un palo della sua casupola, una casupola più miserabile di quella del selvaggio più abbrutito.» Non lo fa con la tecnica dell’impersonalità, anzi l’autore interviene direttamente più volte e alla fine dimostra che il poemetto in prosa non è un racconto realista ma un apologo, un breve racconto allegorico. Il vecchio saltimbanco è la figura allegorica del letterato nella società moderna: «nel tornare a casa, posseduto da quella visione, cercai di analizzare il mio improvviso dolore, e dissi fra me: “Io ho visto l’immagine del vecchio uomo di lettere sopravvissuto alla generazione che ei seppe tener tanto allegra; del vecchio poeta senza famiglia, senza amici, senza figlioli, avvilito dalla miseria e dall’ingratitudine pubblica, in una baracca dove gli uomini obliosi non vogliono più entrare”.» Così come Madame Bovary era una contadina innalzata al rango di eroina tragica, qui un vecchio pagliaccio è innalzato al rango di allegoria del poeta.

In questo poemetto in prosa, Baudelaire non usa la tecnica dell’impersonalità, ma provoca comunque nel lettore uno sconvolgimento della percezione abituale della realtà grazie allo straniamento, in particolare quando, dopo avere descritto il giorno di festa, come un «giubileo popolare», cioè una festività solenne del popolo, invece di distaccarsene come avrebbe fatto un poeta antico, per esempio Orazio che prese le distanze da chi come il poeta Fannio si esibisce in pubblico (Satire, I, 4, vv. 21-23), dichiara: «Quanto a me, io non manco mai, da vero parigino, di passare in rassegna tutte le bancarelle che vantano le loro offerte in queste ricorrenze festive.» Ed ecco che improvvisamente noi che credevamo che lo scrittore dandy stesse prendendosi gioco del «popolo in vacanza» e guardavamo con distacco, insieme a lui, la scena, illudendoci di essere immuni dal fascino di saltimbanchi, giocolieri, ammaestratori di animali e venditori ambulanti, scopriamo che il dandy si guarda con autoironia dall’esterno mentre passa in rassegna tutte le bancharelle. E ora noi, estraniati, insieme a lui, vediamo con altri occhi non solo la scena della fiera popolare ma anche tutta la letteratura moderna. Dato che il letterato moderno si identifica con il vecchio saltimbanco, la letteratura deve essere identificata con il circo. Sia il circo moderno che la letteratura moderna nascono nel Settecento: i primi spettacoli circensi, con numeri di cavalli ammaestrati, giochi acrobatici, spettacoli di clown, nascono a Londra nel 1768 ad opera di Philip Astley; la prima Storia della letteratura italiana di Girolamo Tiraboschi viene pubblicata nel 1772. Il circo è un’immagine che ricorre spesso nella letteratura moderna e d’avanguardia, per indicare il loro statuto di mondo a parte, allo stesso tempo inatteso e marginale. La libertà formale, il gioco e l’isolamento, tipici del mondo del circo, sono i principi fondamentali della letteratura moderna.

Potremmo proseguire oltre, ma è bene fermarsi qui, almeno per il momento.

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